𝐋𝐚 𝐩𝐢𝐥𝐥𝐨𝐥𝐚 𝐝𝐢 𝐝𝐢𝐫𝐢𝐭𝐭𝐨 𝐩𝐞𝐧𝐚𝐥𝐞 𝐝𝐞𝐥 𝟏𝟔.𝟎𝟑.𝟐𝟎𝟐𝟐: La rilevanza dell’affiliazione rituale in tema di associazioni di tipo mafioso
La rilevanza dell’affiliazione rituale in tema di associazioni di tipo mafioso
a cura dell’avvocato Paolo Vincenzo Rizzardi
#art.416bisc.p. #Associazioneperdelinquere
Corte di Cassazione, sezioni unite penali, n.36958 del 27/05/2021
La presente decisione offre degli ottimi spunti di riflessione in materia di associazioni di tipo mafioso e segnatamente al valore probatorio da attribuire all’affiliazione rituale rispettoalla condotta partecipativa, rilevante ai sensi dell’articolo 416 bis c.p.
Appare opportuno riportare la questione di diritto rimessa alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione: “Se la mera affiliazione ad un’associazione di stampo mafioso (nella specie ‘ndrangheta), effettuata secondo il rituale previsto dall’associazione stessa, costituisca fatto idoneo a fondare un giudizio di responsabilità in ordine alla condotta di partecipazione, tenuto conto della formulazione dell’art. 416-bis c.p. e della struttura del reato”.
Da ciò si deduce che il collegio è impegnato nel fissare i contorni della stessa nozione di partecipazione, intesa quale manifestazione primaria di adesione al sodalizio criminoso.
Infatti, la questione problematica dei requisiti strutturali richiesti per la contestazione della condotta partecipativa emerge nel caso in cui il piano probatorio, acquisito in sede processuale, non fornisca elementi idonei ad attestare l’apporto di un contributo causale alla consorteria mafiosa, ma comprova soltanto il mero compimento di formalismi rituali.
Invero, l’ordinanza di remissione “[…] esplicita chiaramente il timore di una duplice deriva ermeneutica: a) la sufficienza, attraverso indebiti automatismi probatori, della sola adesione formale ad una cosca criminale ai fini della configurabilità del delitto di partecipazione ad associazione mafiosa; b) la necessità della realizzazione di condotte causali strumentalmente orientate verso gli obiettivi dell’associazione ai fini della punibilità. Da qui la ricerca di un punto di equilibrio tra l’esigenza di non lasciare impunite forme di reità di particolare allarme sociale e il rispetto dei principi costituzionali in materia penale, che precludono accuse fondate su responsabilità da status o da posizione o che si traducano in un’elusione delle garanzie poste a presidio della libertà individuale”.
Ciò ha condotto il Supremo Collegio a ritenere che “due sono i temi di indagine da esplorare: il primo – attinente al profilo della tipicità – concerne l’individuazione del minimum della condotta di partecipazione punibile; il secondo – relativo al profilo della prova – ha riguardo al valore da attribuire agli indici sintomatici della partecipazione, tra cui si colloca, in primis, l’avvenuto compimento di un rituale di affiliazione”.
Prima di risolvere il quesito, la Suprema Corte esegue un’efficace ricostruzione della fattispecie di cui all’articolo 416 bis c.p.
L’articolo 416 bis c.p. è stato introdotto nel codice penale dalla legge n. 646/1982, a fronte dell’inadeguatezza della fattispecie prevista dall’articolo 416 c.p.a punire i “nuovi fenomeni” di consorteria criminale. Invero, nella relazione di accompagnamento alla proposta di legge si chiarisce che “[…] con questa previsione si vuole colmare una lacuna legislativa già evidenziata da giuristi e operatori del diritto, non essendo sufficiente la previsione dell’art. 416 c.p. (associazione per delinquere) a comprendere tutte le realtà associative di mafia che talvolta prescindono da un programma criminoso secondo la valenza data a questo elemento tipico dall’art. 416 c.p., affidando il raggiungimento degli obiettivi alla forza intimidatrice del vincolo mafioso in quanto tale: forza intimidatrice che in Sicilia e in Calabria raggiunge i suoi effetti anche senza concretarsi in una minaccia o in una violenza negli elementi tipici prefigurati nel codice penale”.
Il bene giuridico tutelato principalmente dalla fattispecie in commento è rappresentato dall’ordine pubblico, inteso nella sua duplice dimensione. Quella “oggettiva”, quale complesso delle condizioni che garantiscono la sicurezza e la tranquillità comune, e quella “soggettiva”, intesa come libertà morale della popolazione di determinarsi nelle proprie scelte liberamente.
Ai fini della tipicità del modello associativo di tipo mafioso, assumono particolare importanza, oltre alla ricorrenza dell’elemento personale connesso alla distribuzione gerarchica dei ruoli e all’esistenza di una specifica struttura organizzativa e logistica, le modalità attraverso cui l’associazione si manifesta.
Infatti, il collegio osserva che “Del resto, la compresenza di finalità lecite ed illecite finisce per conferire al metodo il ruolo di elemento cardine della fattispecie, quale spartiacque volto a circoscrivere la nozione penalmente rilevante di “associazione mafiosa”.
In particolare, la condotta tipica è descritta al comma 3 della fattispecie in commento “si avvalgono della forza d’intimidazione del vincolo associativo e dell’assoggettamento e omertà che ne deriva”.
Quanto alle finalità, esse postulano, anche alternativamente, l’attuazione di un programma illecito e/o il perseguimento di obiettivi in sé leciti, come ad esempio “acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici”.
Ciò conduce a sostenere che rispetto all’associazione a delinquere semplice, nell’associazione per delinquere di tipo mafioso si attua un’inversione del rapporto tra mezzi e fini. Infatti, mentre per l’associato comune la realizzazione dei delitti costituisce il fine dell’associarsi, per l’associato mafioso l’attività delinquenziale rappresenta il mezzo per il perseguimento dell’obiettivo finale, consistente nel controllo stabile di un segmento della vita sociale.
“In tale ottica, pertanto, l’utilizzo della forza d’intimidazione deve assumere una pregnanza concreta così rilevante ed intensa da creare nella comunità un timore diffuso, volto a limitare la libertà dei consociati.
Il metodo mafioso finisce così con l’assumere connotazioni di carattere oggettivo, idonee a designare non solo il “modo d’essere” dell’associazione, ma anche il “modo di esprimersi” della stessa”.
Relativamente alla natura giuridica della fattispecie, il collegio ritiene che, pur non potendosi mettere in dubbio la natura di reato di pericolo, per integrare il tipo occorre riscontrare empiricamente che il sodalizio abbia in termini effettivi dato prova di possedere tale “forza” e di essersene avvalso. “Si supera così l’interpretazione volta a conferire alla locuzione un rilievo solo sul piano soggettivo, ossia come mera intenzione di “avvalersi” e si attribuisce rilievo all’oggettività del metodo mafioso in ossequio ai già menzionati principi di oggettività ed offensività. […] Se, pertanto, occorre che il sodalizio mafioso, nel contesto di riferimento, abbia realizzato una capacità intimidatrice effettiva ed obiettivamente riscontrabile, ciò significa che la natura di pericolo della fattispecie implica che l’organizzazione deve essere concretamente in grado di porre in pericolo l’ordine pubblico, l’ordine economico e la libertà di partecipazione alla vita politica, non essendo sufficiente il mero pericolo che i suoi elementi costitutivi possano manifestarsi.
Il reato di associazione mafiosa non può ritenersi integrato escludendo la dimensione del danno, che deve configurarsi come concreto ed effettivo, proprio in relazione all’utilizzo del metodo mafioso inteso nel suo senso oggettivo: quest’ultimo, infatti, non può perdere la propria consistenza fino a far degradare la fattispecie a semplice pericolo attraverso mere prospettazioni prognostiche. In questo senso deve riconoscersi che il pericolo astratto non integra la fattispecie, rimanendo incerto e solo ipotetico il concreto passaggio dal pericolo al danno (cfr., Sez. 6, n. 9001 del 02/07/2019, dep. 2020, Demasi, Rv. 278617-01, nella quale si riconosce che l’associazione mafiosa non è strutturata sulle “intenzioni”, ma su una rete di effettive derivazioni causali)”.
Ciò premesso, la Suprema Corte di Cassazione analizza l’espressione “fa parte” contemplata nel comma 1 dell’articolo 416 bis c.p.
Al riguardo, la condotta del partecipe può sostanziarsi nella prestazione di un contributo di qualsivoglia genere, purchè non occasionale e apprezzabile sotto il profilo causale. Dunque, tale contributo deve essere corredato dalla consapevolezza dell’esistenza della compagine criminale e dalla volontà di associarsi ad essa. Tuttavia, si osserva in giurisprudenza una tendenza a declinare la nozione di partecipazione in modo diverso in base al compendio probatorio disponibile.
Invero, secondo una prima ricostruzione (soggettiva), la nozione di partecipazione coincide con la mera affectiosocietatis e, dunque, con la volontà di prendere parte all’associazione e a rendersi disponibile ad attuare il programma criminoso.
Questo orientamento è, tuttavia, criticato da coloro i quali evidenziano il rischio di attribuire rilevanza penale ad una mera manifestazione di volontà, in violazione dei principi sanciti dalla carta costituzionale.
Ciò ha condotto un’altra ricostruzione (oggettiva) a ritenere che il partecipe sia colui che realizzi un contributo causale minimo, ma non insignificante alla vita dell’associazione. Tuttavia, anche questa ricostruzione è stata criticata da coloro i quali sottolineano che questo orientamento non sia in grado di circoscrivere in maniera univoca il novero delle condotte atte ad integrare la fattispecie in commento. “La fluidità e la scarsa selettività della nozione introduce così il rischio di interpretazioni estensive tali da attrarre nell’area di operatività della fattispecie l’intera gamma delle condotte in astratto funzionali alla vita dell’associazione”.
Ciò ha determinato un’altra ricostruzione giurisprudenziale (sentenza Mannino)a chiarire che “per la punibilità dell’agente a titolo di partecipazione, la verifica dimostrativa della ricorrenza di un duplice aspetto: sul terreno soggettivo va riscontrata l’affectiosocietatis, ossia la consapevolezza e volontà del singolo di far parte stabilmente del gruppo criminoso con piena condivisione dei fini perseguiti e dei metodi utilizzati; sul piano oggettivo, è da ritenersi che, non potendosi ritenere sufficiente la mera ed astratta “messa a disposizione” delle proprie energie (dato che ciò, oltre a costituire un dato di notevole evanescenza sul piano dimostrativo, si porrebbe in insanabile contrasto con il fondamentale principio di materialità delle condotte punibili di cui all’art. 25 Cost.), va riscontrato in concreto il “fattivo inserimento” nell’organizzazione criminale, attraverso la ricostruzione – sia pure per indizi – di un “ruolo” svolto dall’agente o comunque di singole condotte che – per la loro particolare capacità dimostrativa – possano essere ritenute quali “indici rivelatori” dell’avvenuto inserimento nella realtà dinamica ed organizzativa del gruppo.La sentenza “Mannino”, ancora più esplicitamente, statuisce che può definirsi partecipe “colui che si trovi in un rapporto di stabile ed organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare, più che uno status di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l’interessato “prende parte” al fenomeno associativo”: ciò rende evidente che la condotta tipica deve essere intesa nei termini di una “partecipazione fattiva”, che si realizza mediante il compimento di “atti di militanza associativa“. La stessa non deve necessariamente possedere – di per sé – una carica elevata di apporto causale alla vita dell’intera associazione o di un suo particolare settore, come richiesto per il concorrente esterno, ma deve in ogni caso porsi come comportamento concreto, teso ad agevolare il perseguimento degli scopi associativi in modo riconoscibile e non puramente teorico, sì da potersi ritenere condotta indicativa dello stabile inserimento del soggetto nel gruppo”.
La sentenza Mannino analizza la condotta del partecipe sotto due profili: quello sostanziale e quello probatorio. Rispetto al profilo sostanziale / soggettivo “il partecipe deve non solo voler contribuire causalmente al rafforzamento dell’associazione, ma deve volere anche la realizzazione del programma criminoso, escludendosi così l’applicazione del dolo eventuale, nel senso della mera accettazione del rischio di realizzazione dell’evento”.
Sotto il profilo probatorio, invece, “[…] la sentenza individua una serie di indicatori fattuali “dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi il nucleo essenziale della condotta partecipativa, e cioè la stabile compenetrazione del soggetto nel tessuto organizzativo del sodalizio”: in tal senso, vengono indicati, a scopo meramente esemplificativo, “indizi gravi e precisi, dai quali sia lecito dedurre, senza alcun automatismo probatorio, la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo nonché della duratura, e sempre utilizzabile, “messa a disposizione” della persona per ogni attività del sodalizio criminoso”, tra i quali vengono annoverati “i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di “osservazione” e “prova”, l’affiliazione rituale, l’investitura della qualifica di “uomo d’onore”, la commissione di delitti-scopo oltre a molteplici, variegati e però significativi factaconcludentia”.
Il paradigma organizzatorio puro viene, pertanto, sviluppato nella sua formulazione sincretistico-additiva; da una caratterizzazione “statico-formale” della condotta, si passa, quindi, ad una sua dimensione “dinamico-funzionale“.
Ciò premesso, il collegio osserva che le coordinate ermeneutiche tracciate dalla sentenza Mannino non siano state recepite dalla giurisprudenza successiva.
Diversamente, le Sezioni Unite concludono nel senso di aderire alle conclusioni a cui sono giunte le Sezioni Unite “Mannino”. Pertanto, la Corte chiarisce che se il presupposto che “lega” l’adepto alla consorteria è il suo stabile inserimento, esso potrà realizzarsi o in modo formale, attraverso i rituali di adesione o in modo concreto, con il compimento di azioni. “Tuttavia, mentre il compimento di attività causalmente orientate a favore dell’associazione non richiede altri indici probatori in ragione della loro indubbia autoevidenza,l’adesione al sodalizio in forme rituali impone la ricerca di ulteriori elementi che possono comprovare l’effettiva e stabile intraneità e rendere certa e potenzialmente duratura la “messa a disposizione” del soggetto.”