NOTE SULLA DOPPIA PREFERENZA DI GENERE (ovvero, ad essere più realisti del Re)
di Arcangelo Monaciliuni
NOTE SULLA DOPPIA PREFERENZA DI GENERE (ovvero, ad essere più realisti del Re)
In questa estate del 2021 dovrebbero esser trattati solo temi “leggeri” ad evitare di appesantire un clima già rovente per le elevate temperature, in senso fisico e metaforico. E di certo la “doppia preferenza di genere” in materia elettorale non rientra fra i generi leggeri.
Cercherò dunque di trattarne con quanta speditezza e leggerezza possibili, senza tuttavia potermi sottrarre dall’iniziare con il citare, pur senza commentarli, i passi delle Epistole di Paolo di Tarso: “Mulier non est imago Dei”, “Mulieres in ecclesiis taceant” (in lettere ai Corinzi), presenti anche nella dottrina di Agostino di Ippona e di Tommaso d’Aquino, nonché, sotto il versante dello ius civile, il frammento di Papiniano secondo cui “In multis iuris nostri articulis deterior est condicio feminarum quam masculorum” (Dig. 1.5.9).
Prima di bypassare i millenni e venire ai giorni nostri mi preme far notare che, se pur a titolo di eccezione rispetto ai canoni ed al comune sentire, anche nei secoli c. detti bui la stessa Chiesa cattolica affidò a donne, se pur grandi donne, addirittura la potestas iudicandi. Lo fece Innocenzo III rimettendo ad Eleonora di Aquitania quella di decidere, sentiti i Vescovi del territorio, una vertenza fra due ordini religiosi e lo aveva già fatto, ancor più ad ampio spettro, Gregorio VII in favore di Matilde di Canossa.
Orbene, al dichiarato fine di dare piena attuazione al dettato costituzionale di cui agli artt. 3 (primo e secondo comma), art. 51 (come novellato nel 2003), art. 37 ed art. 117 Cost. in tema di parità fra i sessi e di rimozione di ostacoli alla compiuta partecipazione alla vita politica del Paese, la legge 23 novembre 2012, n 215, recante “Disposizioni per promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali….” ha disposto che: “Ciascun elettore può altresì esprimere, nelle apposite righe stampate sotto il medesimo contrassegno, uno o due voti di preferenza, scrivendo il cognome di non più di due candidati compresi nella lista da lui votata. Nel caso di espressione di due preferenze, esse devono riguardare candidati di sesso diverso della stessa lista, pena l’annullamento della seconda preferenza” (art. 2 della legge che modifica in tali sensi l’art. 73 del Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli Enti locali, di cui al d. l.vo n. 267 del 2000).
Scendendo nel concreto, prendiamo ora ad esempio il Comune di Napoli, interessato dalla prossima tornata elettorale, i cui meccanismi, confesso, sto tentando di penetrare, a tanto stimolato dalla candidatura a consigliere comunale di un mio stretto congiunto.
Da quanto si trae dal sito ufficiale del Comune il rapporto fra uomini e donne è pari a 91,74 uomini ogni 100 donne, in linea con quello della intera Nazione (93,81 uomini ogni 100 donne). Ne consegue, quale inevitabile corollario, che la previsione normativa in commento offre alle donne, non singolarmente considerate, ma intese come genere/gruppo, chances maggiori di eleggere al consiglio comunale rappresentanti del loro sesso: è sufficiente infatti che concentrino i loro voti su candidate donne.
E, dunque, appare potersi/doversi imputare alla norma una discriminazione a discapito dei maschi che non avranno le stesse chances in ragione del loro numero ridotto, permanentemente ridotto, rispetto all’altro sesso votante. Ma non solo; come chiarirò in avanti la norma tradisce anche la sua stessa dichiarata finalità di concedere chances maggiori al sesso femminile: il che dovrebbe valere a salvarmi dall’accusa di Cicero pro domo sua. E se tali conclusioni hanno fondamento vien da chiedersi se la previsione in commento possa ritenersi conforme a Costituzione.
La relativa verifica può essere eseguita a mezzo di un’analisi della giurisprudenza costituzionale in subjecta materia.
In principio fu la sentenza n. 422 del 1995. Questa ebbe a dichiarare l’illegittimità costituzionale della previsione (art. 5, secondo comma, ultimo periodo, della l. n. 1 del 93) a mente della quale “Nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi può essere di norma rappresentato in misura superiore a due terzi”.
Siffatta riserva di quote fu infatti ritenuta confliggere con il principio di eguaglianza, di accesso alle cariche elettive e di associazionismo per concorrere con metodo democratico a determinare le politiche, di cui agli artt. 3, 51 (ante riforma del 2003) e 49 Cost.
Osservò la Corte: “In particolare, in tema di diritto all’elettorato passivo, la regola inderogabile stabilita dallo stesso Costituente, con il primo comma dell’art. 51, è quella dell’assoluta parità, sicché ogni differenziazione in ragione del sesso non può che risultare oggettivamente discriminatoria, diminuendo per taluni cittadini il contenuto concreto di un diritto fondamentale in favore di altri, appartenenti ad un gruppo che si ritiene svantaggiato. È ancora il caso di aggiungere, come ha già avvertito parte della dottrina nell’ampio dibattito sinora sviluppatosi in tema di “azioni positive”, che misure quali quella in esame non appaiono affatto coerenti con le finalità indicate dal secondo comma dell’art. 3 della Costituzione, dato che esse non si propongono di “rimuovere” gli ostacoli che impediscono alle donne di raggiungere determinati risultati, bensì di attribuire loro direttamente quei risultati medesimi: la ravvisata disparità di condizioni, in breve, non viene rimossa, ma costituisce solo il motivo che legittima una tutela preferenziale in base al sesso. Ma proprio questo, come si è posto in evidenza, è il tipo di risultato espressamente escluso dal già ricordato art. 51 della Costituzione, finendo per creare discriminazioni attuali come rimedio a discriminazioni passate … ”.
Sopravvenne poi la sentenza n. 49 del 2003. Questa, apparentemente senza contraddire i principi scanditi dal precedente del 1995, ebbe in effetti a sancire un mutamento nell’orientamento della Corte.
Ed invero, la previsione della legge regionale della Val D’Aosta secondo la quale ogni lista di candidati all’elezione del Consiglio regionale dovesse prevedere “la presenza di candidati di entrambi i sessi” fu salvata nell’assunto che la disposizione censurata, da valutarsi “alla luce di un quadro costituzionale di riferimento che si è evoluto rispetto a quello in vigore all’epoca della pronuncia n. 422/1995, …. stabilisce un vincolo non già all’esercizio del voto o all’esplicazione dei diritti dei cittadini eleggibili, ma alla formazione delle libere scelte dei partiti e dei gruppi che formano e presentano le liste elettorali, precludendo loro (solo) la possibilità di presentare liste formate da candidati tutti dello stesso sesso. Tale vincolo negativo opera soltanto nella fase anteriore alla vera e propria competizione elettorale, e non incide su di essa. La scelta degli elettori tra le liste e fra i candidati, e l’elezione di questi, non sono in alcun modo condizionate dal sesso dei candidati”.
Evidente (a chi scrive) appare la “forzatura” rispetto ai limpidi principi della pronuncia del 1995, quali solo sommariamente innanzi riportati.
Infine -e questa volta in presenza della novellazione dell’art. 51 Cost. ad opera della l. costituzionale n. 1 del 2003 che ha aggiunto al primo comma dell’art. 51 “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza secondo i requisiti stabiliti dalla legge.” il periodo “A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità fra donne ed uomini”- è sopravvenuta la sentenza n. 14 gennaio 2010, n. 4 che si è occupata della L.R. Campania n. 4/2009, nella parte in cui, in attuazione della normativa nazionale, istituisce la “preferenza di genere” nelle elezioni regionali consentendo all’elettore di esprimere due voti di preferenza a condizione che, nel caso di espressione di due preferenze, una riguardi un candidato di genere maschile ed una un candidato di genere femminile della stessa lista, pena l’annullamento della seconda preferenza (art. 4, co. 3).
La Corte ha dichiarato che tale normativa -quale prevista anche per i Comuni con cogenza immediata dalla normativa nazionale di cui supra, e quindi di diretta ed immediata rilevanza nel presente intervento- non viola la Costituzione.
Dopo aver premesso che “la finalità della nuova regola elettorale è dichiaratamente quella di ottenere un riequilibrio della rappresentanza politica dei due sessi all’interno del consiglio regionale, in linea con i principi ispiratori del riformato art. 51, primo comma, Cost. e dell’art. 117, settimo comma, Cost., nel testo modificato dalla l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3 ….”, il giudice delle leggi ha ritenuto che “i diritti fondamentali di elettorato attivo e passivo rimangono inalterati. Il primo perché l’elettore può decidere di non avvalersi di questa ulteriore possibilità, che gli viene data in aggiunta al regime ormai generalizzato della preferenza unica, e scegliere indifferentemente un candidato di genere maschile o femminile. Il secondo perché la regola della differenza di genere per la seconda preferenza non offre possibilità maggiori ai candidati dell’uno o dell’altro sesso di essere eletti, posto il reciproco e paritario condizionamento tra i due generi nell’ipotesi di espressione di preferenza duplice. Non vi sono, in base alla norma censurata, candidati più favoriti o più svantaggiati rispetto ad altri, ma solo una eguaglianza di opportunità particolarmente rafforzata da una norma che promuove il riequilibrio di genere nella rappresentanza consiliare.”
Ma se tale è (è stato) il ragionare della Corte, ferme le perduranti “dissonanze” rispetto ai dicta della ripetuta pronuncia del 1995, vien da chiedersi se l’imprevedibilità del risultato sia davvero sufficiente -come dalla Corte ritenuto nella parte finale della motivazione: “L’aleatorietà del risultato dimostra che quello previsto dalla norma censurata non è un meccanismo costrittivo, ma solo promozionale, nello spirito delle disposizioni costituzionali”- a negare una diseguaglianza sostanziale, ovvero una “discriminazione” a sfavore non solo degli uomini, ma delle stesse donne, costrette dalla norma ad optare per un secondo candidato di genere maschile, senza poter così dispiegare il massimo della “potenza” elettorale possibile per assicurare quella promozione alle cariche elettive del sesso c. detto debole.
Pur nello scontato, doveroso, rispetto della decisione del giudice delle leggi, appare lecito chiedersi se invece la norma, lungi dal configurarsi come semplice “azione positiva”, in quanto tale ammissibilmente volta a far conseguire sostanziale parità ai due sessi, non si presti invece ad esser tacciata come:
– discriminatoria rispetto al sesso maschile, melius rispetto alla libertà di voto di cui all’art. 48 Cost., in quanto e per quanto compressa consentendosi due preferenze, ma nel contempo tuttavia “imponendo” una scelta diversa da quella possibile in regime di libertà;
– contraddittoria rispetto alla finalità di riequilibrio del sistema in favore delle donne, vieppiù -direi utilizzando a contrario l’argomento- in presenza dell’integrazione del 2003 al ripetuto art. 51 Cost. Ma di più, non solo contradditoria, ma anche di fatto inefficace. Ed invero, la materia dei giochi elettorali interni alle liste è complessa ed autorevoli analisi han mostrato che in gran parte dei casi siffatto sistema della doppia preferenza di genere ha funzionato come un boomerang per le candidate donne che hanno finito per fare da portatrici di preferenze per i loro partner maschili (per i candidati con i quali, in via di fatto, si sono unitariamente presentati all’elettorato, chiedendo il doppio voto);
– monca, per non farsene carico nelle diverse, possibili, ricadute, rispetto alle problematiche legate al riconoscimento “del diritto alla identità di genere quale elemento costitutivo del diritto alla identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona, art. 2 Cost. e art. 8 CEDU” (affermato, sia pur a diversi fini, dal punto 4.1. della sentenza della Corte costituzionale n. 221 del 2015);
– dissonante/ultronea rispetto alle restanti previsioni della medesima legge n. 215 del 2012 che hanno assicurato alle donne una presenza nelle giunte municipali e provinciali, imponendo che gli Statuti comunali e provinciali, oltre quelli regionali in sede di adeguamento, “stabiliscano norme … per garantire la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali non elettivi del Comune e della provincia, nonché delle aziende ed istituzioni da essi dipendenti” (art. 1, comma 1, della legge n. 215 del 2012 che, in tali sensi, ha modificato l’art. 6 del citato Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli Enti locali, di cui al d. l.vo n. 267 del 2000). Previsione, questa, che non vulnera, melius espressamente dichiara di non voler vulnerare (“… negli organi collegiali non elettivi..”) i sacrosanti principi di incomprimibilità, sotto qual forma che sia, della completa libertà di voto in materia elettorale, pur imponendo una presenza femminile negli organi “esecutivi”, ovvero laddove risiede buona parte, gran parte, del Potere effettivo.
Profili specifici questi che non risultano esser stati trattati, di certo non funditus, dalla Corte, in particolare dalla sua ultima pronuncia in commento. Anzi, qui a rilevare, e in tesi a non poco rilevare, è il dato che la Campania era stata la prima Regione a dare attuazione alla doppia preferenza di genere. Ed invero, se “La questione riguarda una norma che, per la prima volta nell’ordinamento italiano, prevede la cosiddetta preferenza di genere (incipit del punto 3.1 del Considerato in diritto della pronuncia), non è dato conoscere quale sarebbe stata la conclusione del giudice delle leggi in presenza di un quadro, quale quello odierno di ormai generale applicazione dell’istituto, ossia non più nel ben diverso quadro all’epoca considerato di “aggiunta al regime ormai generalizzato della preferenza unica” (cfr. supra).
Del resto, una norma di tal identica fatta ed in tale misura compressiva dei diritti di elettorato passivo non è data rinvenire in alcuno dei diversi ordinamenti europei (dei singoli Stati). Né, tal quale, la si rinviene nell’ordinamento proprio comunitario che, in adesione ai principi della convenzione di New York del 1979 sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, si è occupato della parità tra uomini e donne per dichiarala, solennemente, essenziale per la dignità umana e per la democrazia, con connesse raccomandazioni agli Stati membri di adottare misure atte a consentirne l’attuazione (omisso medio, dalla Carta di Nizza del 1985 alla raccomandazione del 2003).
Prima di chiudere si impone, da ultimo, ma niente affatto per ultimo, una espressa, pregnante, precisazione volta a scongiurare ogni possibile equivoco. Mi riferisco al dato che quanto fin qui esposto, come peraltro reso già chiaro dalla sopra riconosciuta ammissibilità delle previsioni che impongono la presenza anche femminile negli organi/smi esecutivi, ancorchè perdurante la necessità di farsi carico del gender balance, afferisce solo e soltanto al perimetro elettorale che non tollera norme “in contrasto con i principi che regolano la rappresentanza politica, quali si configurano in un sistema fondato sulla democrazia pluralistica, connotato essenziale e principio supremo della nostra Repubblica” (punto 7, secondo periodo, del Considerato in diritto della pronuncia n. 422 del 1995). E’ solo questo segmento ad essere in discussione, ad essere oggetto delle presenti note, e non anche quindi i diritti politici, nei quali quelli elettorali son ricompresi, e non anche, ancora allargando il cerchio e lo spettro, quelli civili.
Il che a dire, in più semplici parole, che certamente vanno salutate con favore quante normative atte, senza vulnerare i ripetuti principi sulla assoluta libertà di voto, a favorire in concreto l’uguaglianza sostanziale, a far crollare i troppi soffitti di cristallo ed a rimuovere i colli di bottiglia all’ingresso.
Certo, la storia ha già fatto giustizia, da secoli e secoli, dei convincimenti di Paolo di Tarso e di Papiniano e, certo, la potestas iudicandi è oggi affidata in prevalenza a donne e così altre diverse potestà/attività di non secondario rilievo. Nondimeno, il cammino a percorrersi per assicurare una generale e globale eguaglianza sostanziale, purtroppo ancora in questa nostra parte di mondo, è ben lungo e denso di ostacoli, sì da “imporre” -e qui in perfetta armonia con i precetti costituzionali e sovranazionali- quanti interventi necessari a favorirlo.
Riannodando le fila, mi vien fatto di concludere rilevando che la doppia preferenza di genere -ed esso sola, giova ancora una volta ripeterlo- appare poter essere ricondotta alle evenienze di cui si parla ricorrendo all’espressione: “essere più realisti del re”, con quanto di negativo vi è sotteso.