𝐈𝐥 𝐩𝐨𝐭𝐞𝐫𝐞 𝐝𝐢 𝐨𝐫𝐝𝐢𝐧𝐚𝐧𝐳𝐚 𝐧𝐞𝐥𝐥’𝐞𝐫𝐚 𝐝𝐞𝐥 𝐜𝐨𝐫𝐨𝐧𝐚𝐯𝐢𝐫𝐮𝐬
di Arcangelo Monaciliuni
Calamus iuris – anno 1 – n. 4 – marzo 2020
“Videant consules ne quid detrimenti res publica capiat” (Vigilino i consoli affinchè alcun danno subisca la repubblica) era la formula sacrale mediante la quale il Senato di Roma, attraverso un “senatus consultum ultimum”, a fronte di situazioni di emergenza e/o di gravi pericoli per lo Stato conferiva ad un “dictator” poteri pressocchè assoluti.
Venendo ad epoche più recenti, in era fascista la l. 31 gennaio 1926, n. 100 attribuì al Governo ed ai Prefetti, emanazioni locali del potere centrale, un potere amplissimo di adozione di “ordinanze di necessità” nei campi più svariati, ivi compreso quello di dichiarare lo “stato di pericolo pubblico” e “lo stato di guerra” interno nei casi di emergenza, con la conseguenza del passaggio della giurisdizione ai Tribunali militari (art. 214 e ss.). L’esempio più classico di struttura normativa attributiva, in era fascista, del potere di ordinanza resta quello fornito dall’art. 2 del r. d. 18 giugno 1931, n. 773, recante il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza: “Il prefetto, nel caso di urgenza o per grave necessità pubblica, ha facoltà di adottare i provvedimenti indispensabili per la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica”.
Né l’avvento dell’era repubblicana ha potuto cancellare con un colpo di spugna il “diritto della necessità”, inteso non come fonte naturale di tutto il diritto, di causa generale della sua nascita e del suo dispiegarsi, ma come fonte straordinaria cui va fatto ricorso in casi straordinari di “necessità ed urgenza” che non possono essere gestiti attraverso l’ordinario armamentario di strumenti giuridici.
E né si è potuto disconoscere che nel suo ambito esiste un tipo di necessità ancor più pressante, un tertium genus che “rompe gli argini ed obbliga a seguire nuove norme di diritto in contrasto anche con quelle maggiormente resistenti, come quelle che sono al vertice della scala delle durezze” (così Barile, Manuale di Istituzioni di diritto pubblico, Cedam, 1991). Rottura degli argini idonea a porsi (proporsi) come fonte diretta e legittima di produzione normativa libera nella causa e nei contenuti.
Per vero, la Costituzione non si occupa delle “necessità” che impongano la sospensione dell’efficacia delle stesse norme costituzionali, ovvero di quelle emergenze che per l’appunto “rompono gli argini” e possono dover imporre una deroga alle libertà garantite dagli artt. 13 e ss. Cost.
In disparte il caso di guerra (art. 78 Cost. “Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari”) la Carta non reca altre disposizioni che si occupino espressamente di emergenze interne di forza dirompente tale da rompere gli argini, ancorchè, notazione di non poco rilievo, la limitazione e/o la sospensione dei diritti di libertà in presenza delle stesse avessero costituito oggetto di apposita norma che tuttavia in sede costituente non venne approvata.
In detto quadro vi è da compiere una prima verifica in ordine alla compatibilità con la Carta delle norme previgenti alla Costituzione che affidavano alla competenza della funzione amministrativa (Ministro dell’Interno e/o ai Prefetti) la sospensione dei diritti di libertà.
Precisato che l’art. 2 del Testo unico di pubblica sicurezza, sopra riportato, è oggi da intendersi integrato dal necessitato rispetto dei “principi dell’ordinamento giuridico”, imposto, in sede di scrutinio della norma, da Corte Costituzionale n. 26 del 1961, per brevità, in relazione alla drammatica vicenda dell’epidemia (pandemia) in corso, l’attenzione va focalizzata sulle previsioni dettate in tema di tutela della salute pubblica.
E dunque -in disparte i singoli, specifici, poteri di ordinanza “speciale, ma a contenuti vincolati, attribuiti ai Sindaci dagli artt. 217 e 258 del T.U. delle leggi sanitarie (il r.d. 27 luglio 1934, n. 1265, tuttora vigente), da ritenersi oggi compresi nella più ampia previsione dell’art. 50 del d.l.vo n. 267 del 2000 recante il Testo Unico sugli Enti locali, di cui nel dettaglio in avanti- occorre occuparsi del più generico art. 261 del medesimo T.U. che affida al Ministro dell’Interno, “quando si sviluppi … una malattia infettiva a carattere epidemico”, il potere di emanare “ordinanze speciali per la visita e disinfezione delle case, per l’organizzazione di servizi e soccorsi medici e per le misure cautelari da adottare contro la diffusione della malattia stessa”.
Nulla quaestio se della norma si dà una lettura riduttiva, nel senso di configurarla come previsione rientrante nell’ambito sanitario, sicchè anche le “misure cautelari” adottabili, pur extra ordinem, han da restare confinate in detto ambito (il che conduce ad un automatico subentro nella competenza del Ministro della Salute); molte quaestiones invece, a mio avviso, se di essa volesse darsi un significato più ampio, atto a sussumerla come possibile fonte legale di un generale potere normativo di ordinanza, a contenuto libero, idoneo ad incidere sui diritti di libertà di cui all’art. 13 e ss. Cost.
Ma procediamo con ordine.
In primo luogo, nessun dubbio sul dato che se i diritti di libertà sono comprimibili, ciò accade vieppiù ove lo stato di necessità abbia ad imporsi a tutela della salute pubblica, tutelata dalla Carta sia “come fondamentale diritto dell’individuo” che quale “interesse della collettività”. Principio questo, della doppia tutela, o meglio della tutela dell’individuo ricompreso nel più generale interesse della collettività, già scolpito nell’art. 2 Cost. che, nel riconoscere i “diritti inviolabili dell’uomo”, nel contempo “richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
E del resto, da più parti si è osservato che la tutela della salute si porrebbe su di uno scranno più alto rispetto al resto dei diritti, perché senza di essa (senza la popolazione in vita) non vi sarebbe spazio concreto per l’esercizio dei restanti diritti fondamentali. In un recentissimo articolo, pubblicato il 15 marzo scorso dal quotidiano “La Repubblica”, Gustavo Zagrebelsky ha sostenuto che le misure extra ordinem finora assunte (dallo Stato) “paiono a favore della più democratica delle libertà: libertà dalla malattia e dalla morte”.
Di tutela della salute, in epoca repubblicana, si occupa la legge n. 833 del 23 dicembre 1978, istitutiva del Servizio sanitario nazionale che, al suo art. 32, comma 1, con effetti forse abrogativi della disciplina di cui all’art. 261 del T.U. delle leggi sanitarie, innanzi commentato, attribuisce al Ministro della sanità (oggi della Salute), il potere di “emettere ordinanze di carattere contingibile ed urgente, in materia di igiene e sanità pubblica o di polizia veterinaria, con efficacia estesa all’intero territorio nazionale o parte di esso comprendente più Regioni” ed il cui terzo comma, trattando delle emergenze sanitarie in ambito locali, prevede che “Nelle medesime materie sono emesse dal Presidente della giunta regionale e dal Sindaco ordinanze di carattere contingibile ed urgente, con efficacia estesa rispettivamente alla regione o a parte del suo territorio comprendente più comuni e al territorio comunale”.
E’ questa la prima delle molte sovrapposizioni normative. Ed invero, il quinto comma dell’art. 50 del ripetuto T.U. sugli enti locali così recita: “In particolare, in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal sindaco, quale rappresentante della comunità locale. Le medesime ordinanze sono adottate dal sindaco, quale rappresentante della comunità locale, in relazione all’urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell’ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti, anche intervenendo in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche. Negli altri casi l’adozione dei provvedimenti d’urgenza ivi compresa la costituzione di centri e organismi di referenza o assistenza, spetta allo Stato o alle regioni in ragione della dimensione dell’emergenza e dell’eventuale interessamento di più ambiti territoriali regionali”.
E la medesima sovrapposizione viene ad aversi in riferimento alle previsioni contenute nell’art. 117 del d.l.vo n. 112/1998, recante il “Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali”, che reitera i contenuti delle norme fin qui richiamate (poteri di ordinanza speciali e competenze diffuse).
Prima di passare ad indagare il perimetro delle competenze, ovvero il cuore delle quaestiones che in questi giorni agita il panorama istituzionale/politico, è il caso di ricordare che il giudice delle leggi – nell’assicurare copertura costituzionale ad una potestà di ordinanza dei Sindaci quali ufficiali del Governo ex art. 54 T.U.E.L. (non più, mediante la soppressione della parola “anche”, generalizzata, ma) limitata all’adozione di “provvedimenti contingibili ed urgenti” da assumersi “con atto motivato, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”- ha avuto modo, per quanto qui più riguarda, di osservare che: “…. La Costituzione italiana, ispirata ai principi fondamentali della legalità e della democraticità, richiede che nessuna prestazione, personale o patrimoniale, possa essere imposta, se non in base alla legge (art. 23).
La riserva di legge appena richiamata ha indubbiamente carattere relativo, nel senso che lascia all’autorità amministrativa consistenti margini di regolazione delle fattispecie in tutti gli ambiti non coperti dalle riserve di legge assolute, poste a presidio dei diritti di libertà, contenute negli artt. 13 e seguenti della Costituzione. Il carattere relativo della riserva de qua non relega tuttavia la legge sullo sfondo, né può costituire giustificazione sufficiente per un rapporto con gli atti amministrativi concreti ridotto al mero richiamo formale ad un prescrizione normativa “in bianco”, genericamente orientata ad un principio-valore, senza una precisazione, anche non dettagliata, dei contenuti e modi dell’azione amministrativa limitativa della sfera generale di libertà dei cittadini.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, costante sin dalle sue prime pronunce, l’espressione «in base alla legge», contenuta nell’art. 23 Cost., si deve interpretare “in relazione col fine della protezione della libertà e della proprietà individuale, a cui si ispira tale fondamentale principio costituzionale”; questo principio “implica che la legge che attribuisce ad un ente il potere di imporre una prestazione non lasci all’arbitrio dell’ente impositore la determinazione della prestazione” (sentenza n. 4 del 1957). Lo stesso orientamento è stato ribadito in tempi recenti, quando la Corte ha affermato che, per rispettare la riserva relativa di cui all’art. 23 Cost., è quanto meno necessario che “la concreta entità della prestazione imposta sia desumibile chiaramente dagli interventi legislativi che riguardano l’attività dell’amministrazione” (sentenza n. 190 del 2007).
È necessario ancora precisare che la formula utilizzata dall’art. 23 Cost. “unifica nella previsione i due tipi di prestazioni imposte” e “conserva a ciascuna di esse la sua autonomia”, estendendosi naturalmente agli “obblighi coattivi di fare” (sentenza n. 290 del 1987). Si deve aggiungere che l’imposizione coattiva di obblighi di non fare rientra ugualmente nel concetto di “prestazione”, in quanto, imponendo l’omissione di un comportamento altrimenti riconducibile alla sfera del legalmente lecito, è anch’essa restrittiva della libertà dei cittadini, suscettibile di essere incisa solo dalle determinazioni di un atto legislativo, direttamente o indirettamente riconducibile al Parlamento, espressivo della sovranità popolare” (così la pronuncia n. 115 del 2011)”.
Orbene, dalle riportate conclusioni del giudice delle legge in presenza di riserva relativa (“in base alla legge”), pacifico si trae che i medesimi limiti hanno vieppiù a valere in presenza di diritti fondamentali coperti da riserva assoluta (“in forza di legge”).
In tale cornice, procedendo ora schematicamente senza oltre indagare il profluvio della legislazione ordinaria in tema delle (più svariate) emergenze, nell’evento che oggi ne occupa si sono succedute:
– ai sensi e per gli effetti dell’art. 7, comma 1, lett. c) del d.l.vo n. 1 del 2018 (Codice della Protezione civile), la dichiarazione, proclamata con la delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020, “dello stato di emergenza” di rilievo nazionale (lettera c);
– ex artt. 24 e 25 stesso decreto, una serie di ordinanze di Protezione civile, abilitate a derogare “ad ogni disposizione vigente, nei limiti e con le modalità indicati nella deliberazione dello stato di emergenza” e “acquisita l’intesa delle Regioni e Province autonome territorialmente interessate”;
– una serie di decreti legge a partire da quello più rilevante, ai fini della presente trattazione, ovvero del decreto-legge 23 febbraio 2020 n. 6 (Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, dalla legge 5 marzo 2020 n. 13;
– una serie di d.P.C.M. attuativi, autorizzati dalle previsioni del decreto legge n. 6/2020 cennato.
– ordinanze di più Regioni (Campania, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Lombardia, Calabria, Sicilia) queste a loro volta -asseritamente- autorizzate, fra le altre fonti richiamate, dal medesimo decreto-legge.
E’ bene a questo punto dar testuale conto delle previsioni del d.l. n. 6/2020.
– l’art. 1 dispone che “allo scopo di evitare il diffondersi del COVID 19 nei Comuni o nella aree nelle quali risulta positiva almeno una persona (.. omissis…) le Autorità competenti, con le modalità previste dall’art. 3, commi 1 e 2, sono tenute ad adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica” (comma 1) e, di seguito, elenca, senza ritenerle esaustive, le misure che “possono essere adottate” tutte incidenti sull’esercizio di diritti e libertà costituzionali (comma 2);
– l’art. 2 autorizza “le Autorità competenti, con le modalità previste dall’art. 3, commi 1 e 2, ad adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza, al fine di prevenire la diffusione dell’epidemia da Covid 19 anche al di fuori dei casi di cui all’art. 1, comma 1”;
– l’art. 3, comma 1, prevede che “Le misure di cui agli articoli 1 e 2 sono adottate, senza nuovi e maggiori oneri per la finanza pubblica, con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro della salute, sentito il Ministro dell’interno, il Ministro della difesa, il Ministro dell’economia e delle finanze e gli altri Ministri competenti per materia, nonché i Presidenti delle regioni competenti, nel caso in cui riguardino esclusivamente una sola regione o alcune specifiche regioni, ovvero il Presidente della Conferenza dei presidenti delle regioni, nel caso in cui riguardino il territorio nazionale”;
– l’art. 3, comma 2 prevede poi che “nelle more dell’adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri d cui al comma 1, nei casi di estrema necessità ed urgenza le misure di cui agli artt. 1 e 2 possono essere adottate ai sensi dell’art. 32 della l. 23 dicembre 1978, n. 833, dell’art. 117 del d. lgs. 31 marzo 1998 n. 112 e dell’art. 50 del T.U. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267”.
– l’art. 3, comma 3, fa salvi, ai sensi dell’art. 32 della l. n. 833 del 1978, “gli effetti delle ordinanze contingibili e urgenti già adottate dal Ministro della salute” (prima dell’entrata in vigore del decreto stesso e che avevano già previsto limitazioni alla libertà personale, alla libertà di circolazione e soggiorno, al diritto di riservatezza);
– infine sempre l’art. 3, commi 4 e 5, richiamando, salvo che il fatto non costituisca reato più grave, l’art. 650 c.p. per le ipotesi di violazione delle misure di contenimento, affida ai Prefetti l’esecuzione delle misure stesse, autorizzando all’uopo l’utilizzo “delle Forze di polizia e, ove occorra, delle Forze armate”.
Or dunque, quanto ai dd.P.C.M., ancorchè abbiano via via accresciuta l’estensione qualitativa e quantitativa delle misure fissate analiticamente dall’art. 1, comma 2, lettere da a) ad o), ovvero dalla norma di rango primario, fonte del potere, può riconoscersene la riconducibilità all’ambito fissato dal Parlamento, sia pur in via sopravveniente, in sede di conversione in legge, ovvero sia pur in difetto, a monte, di quel senatus consultum ultimum che i nostri antichi padri imponevano in via previa.
Certo, meglio sarebbe (stato) se alcune delle misure emanate con i dd.P.C.M., in particolare quelle di cui non era dato rinvenire “coperture puntuali” nelle misure indicate nel d.l., avessero invece seguito la più corretta strada della decretazione di urgenza prevista dall’art. 77 Cost., sì da non sottrarre l’esercizio della potestà extra ordinem al vaglio del Presidente della Repubblica, del Parlamento e della Corte Costituzionale e sì da evitare che misure ulteriori rispetto a quelle puntuali coperte dalla decretazione di urgenza e incidenti su diritti fondamentali venissero adottate a mezzo di un atto che resta “amministrativo” e, in quanto tale, sottoposto alla giurisdizione (annullamento e/o disapplicazione: G.A. e G.O. per quanto di spettanza di ciascuno). Vaglio della giurisdizione che, pur assicurando un controllo generalizzato e diffuso sui singoli provvedimenti attuativi delle misure disposte dalla legge (dal decreto legge convertito), si atteggia ben diversamente dalla esplicazione delle potestà del Parlamento e del Capo dello Stato, con quanti corollari vi son legati.
Ma tant’è. Ora è d’uopo occuparsi del più rilevante profilo della sussistenza o meno della competenza delle Regioni, quale, si intende, in concreto esercitata.
Or dunque, va in primo luogo sgombrato il campo da una possibile loro rivendicatio potestatis sulla scorta delle previsioni di cui agli ultimi commi degli artt. 24 e 25 del Testo unico del 2018
che autorizzano le regioni “nei limiti della propria potestà legislativa” a definire provvedimenti propri. Ed invero, tale autorizzazione è espressamente limitata alle evenienze “di cui all’articolo 7, comma 1, lettera b)” del T.U., ovvero ove non si tratti di “emergenze di rilievo nazionale”, tale formalmente dichiarata dal Governo, come qui avvenuto.
Del resto, se così avesse avuto ad essere per un verso tale fonte del potere, ove rivendicato, avrebbe avuto a dover essere testualmente ostesa nei provvedimenti regionali (e così non è stato, per lo meno non nelle ordinanze ultime rinvenute sul web della regione Campania, n. 15 del 13 marzo 2020, della regione Calabria, n. 15 del marzo 2020, della regione Sicilia, n. 6 del 19 marzo 2020, della regione Lombardia, n. 514 del 21 marzo 2020) e, per concorrente verso, la decretazione di urgenza di cui al d.l. n. 6/2020 non avrebbe avuto necessità, né avrebbe potuto, circoscrivere l’esercizio della potestà regionale extra ordinem (“Nelle more….”. art. 3, comma 2).
Quanto all’art. 2 del d.l., frutto evidente di una purtroppo diffusa mancanza di coordinamento nei testi normativi, pur a volersi concedere quanto più spazio possibile alla potestà regionale di emanazione di “ulteriori” misure, appare decisamente da escludersi la possibilità di intendere la stessa come potestà di dettare misure in contrasto con quelle disciplinate nel dettaglio dal comma 2 dell’art. 1 e/o dai successivi dd.P.C.M., o ancora di poter costituire idonea base legale per sanzioni, incidenti sui diritti fondamentali, “ulteriori”.
In definitiva, una volta proclamato lo stato di emergenza nazionale, la potestà di esercizio dei poteri extra ordinem, vieppiù se, come qui accade, incisivi dei diritti fondamentali sottoposti a riserva di legge assoluta, non appare poter risiedere in capo alle singole Regioni. Lo impone il dettato costituzionale e la normazione primaria e lo impone, oltre che una piana interpretazione sistematica dello ius positum, la ratio che vi è sottesa. Se l’emergenza è nazionale la sede propria, unica, dell’alto comando per “sconfiggere il nemico” non può che essere quella nazionale. E valga ancora il pensiero di Zagrebelsky: “Sono le ragioni di sanità, sicurezza e incolumità a determinare la competenza. Se sono nazionali, come incontrovertibilmente in questo caso, le misure spettano allo Stato” (articolo sopra citato).
- L’insegnamento della Corte Costituzionale (che, in parte qua, appare il caso di riportare nella sua interezza, in quanto) reso in situazione assimilabile.
A tale conclusione conducono anche recenti dicta del giudice delle leggi che -nel dichiarare, con sentenza n. 5 del 2018, non fondate le questioni di legittimità costituzionale delle norme statali in materia di prevenzioni vaccinali sollevate dalla Regione Veneto- per quanto più può afferire alla vicenda ora qui in commento ha sostenuto che: “La normativa in esame interseca indubbiamente una pluralità di materie, alcune delle quali anche di competenza regionale, come la tutela della salute e l’istruzione; nondimeno, debbono ritenersi chiaramente prevalenti i profili ascrivibili alle competenze legislative dello Stato (come evidenziato anche dal parere pronunciato, su richiesta del Presidente della Regione Veneto, dal Consiglio di Stato, Commissione Speciale, 20 settembre 2017, affare n. 1614/2017 – n. 265/2017, spedito in data 26 settembre 2017). Vengono in rilievo specificamente le potestà legislative dello Stato relative a: principi fondamentali in materia di tutela della salute, livelli essenziali di assistenza, profilassi internazionale e norme generali sull’istruzione.
Questa Corte ha già chiarito che il diritto della persona di essere curata efficacemente, secondo i canoni della scienza e dell’arte medica, e di essere rispettata nella propria integrità fisica e psichica (sentenze n. 169 del 2017, n. 338 del 2003 e n. 282 del 2002) deve essere garantito in condizione di eguaglianza in tutto il paese, attraverso una legislazione generale dello Stato basata sugli indirizzi condivisi dalla comunità scientifica nazionale e internazionale. Tale principio vale non solo (come ritenuto nelle sentenze appena citate) per le scelte dirette a limitare o a vietare determinate terapie o trattamenti sanitari, ma anche per l’imposizione di altri. Se è vero che il «confine tra le terapie ammesse e terapie non ammesse, sulla base delle acquisizioni scientifiche e sperimentali, è determinazione che investe direttamente e necessariamente i principi fondamentali della materia» (sentenza n. 169 del 2017), a maggior ragione, e anche per ragioni di eguaglianza, deve essere riservato allo Stato – ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost. – il compito di qualificare come obbligatorio un determinato trattamento sanitario, sulla base dei dati e delle conoscenze medico-scientifiche disponibili.
Nella specie, poi, la profilassi per la prevenzione della diffusione delle malattie infettive richiede necessariamente l’adozione di misure omogenee su tutto il territorio nazionale. Secondo i documenti delle istituzioni sanitarie nazionali e internazionali, l’obiettivo da perseguire in questi ambiti è la cosiddetta “immunità di gregge”, la quale richiede una copertura vaccinale a tappeto in una determinata comunità, al fine di eliminare la malattia e di proteggere coloro che, per specifiche condizioni di salute, non possono sottoporsi al trattamento preventivo.
Pertanto, in questo ambito, ragioni logiche, prima che giuridiche, rendono necessario un intervento del legislatore statale e le Regioni sono vincolate a rispettare ogni previsione contenuta nella normativa statale, incluse quelle che, sebbene a contenuto specifico e dettagliato, per la finalità perseguita si pongono in rapporto di coessenzialità e necessaria integrazione con i principi di settore (sentenze n. 192 del 2017, n. 301 del 2013, n. 79 del 2012 e n. 108 del 2010). Ciò è vero in particolare nel caso odierno, in cui il legislatore, alla luce della situazione già descritta, ha ritenuto di impiegare l’incisivo strumento dell’obbligo, con il necessario corredo di norme strumentali e sanzionatorie, le quali a propria volta concorrono in maniera sostanziale a conformare l’obbligo stesso e a calibrare il bilanciamento tra i diversi interessi costituzionalmente rilevanti. In senso analogo, la giurisprudenza costituzionale ha qualificato come coessenziali ai principi fondamentali della materia disposizioni pur specifiche che prevedono sanzioni amministrative e regolano il procedimento volto ad irrogarle e, ancor prima, ad accertare le trasgressioni (ad esempio, nelle sentenze n. 63 del 2006 e n. 361 del 2003)”.
Il monito della Corte è inequivoco e vieppiù cogente in presenza della “imposizione di trattamenti sanitari” e dei relativi corollari incidenti sui ripetuti diritti fondamentali in dichiarato stato di “emergenza nazionale” (non regionale) e, quindi, in presenza di una situazione normativa che il rispetto delle misure extra ordinem emanate per contrastare la pandemia ha affidato ai Prefetti ed alle Forze Armate, ovvero al potere centrale.
Il che, il rispetto in primis del principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 Cost., non significa affatto che non si possa/debba tener conto delle diversità dei vari fronti di battaglia, ma, come sottolineato dal giudice delle leggi, significa solo assicurare omogeneità di comportamenti ed i necessari raccordi. Andare in guerra in ordine sparso non può che sancire la sicura sconfitta sul fronte esterno (la lotta al virus) ed il caos nelle linee interne (nel Paese).
Ben consapevole di tale necessità, le norme oggi poste non hanno escluso dal quadro di comando le Regioni. Si è innanzi dato conto delle previsioni puntuali all’uopo inserite nella normativa primaria, coerenti con le norme costituzionali e con l’obbligo di “leale collaborazione” che, per pacifica giurisprudenza costituzionale, deve caratterizzare i rapporti Stato/Regioni.
Il dato che una Regione venga a trovarsi in situazione diversa dalle altre e necessiti quindi di misure più incisive è scontato (il “si rendono necessarie ed urgenti misure specifiche più restrittive per il territorio regionale lombardo”, di cui alla parte motiva dell’ordinanza n. 514/2020, è scontato); ma non è scontato che tale condizione possa autorizzare le singole regioni a marciare in ordine sparso, incidendo, con distinti motu proprio, privi di idonea base legale (tale, a mio parere, si intende, non atteggiandosi i generici richiami all’art. 32 d.l.vo n. 833 del 1978, all’art. 50 del T.U. n. 267 del 2000 ed al d.l. n. 6 del 2020), sui diritti fondamentali dei cittadini: della propria regione, ma non solo. E, infine, quanto al piano concreto, non può esser fatta utile leva sul suggestivo argomento che misure più incisive rafforzano la lotta al nemico e tutelano meglio la popolazione locale. Ferme le notazioni in diritto fin qui spiegate, agevole è la replica che di tali misure, ove necessarie, ben può/deve farsi carico, su richiesta delle singole regioni e con tutta l’immediatezza dovuta, lo Stato centrale, armonizzandole con quelle emanate o in fieri. Insomma, il principio di eguaglianza -e quello di solidarietà che pur può, per certi versi, venire anch’esso in rilievo- non impone che la pandemia sia affrontata con una normativa unica, ma che unico sia il soggetto che le differenti situazioni, ove necessario, decida in maniera diversificata, ma omogenea.
E tanto, vieppiù considerando il ruolo essenziale dei tecnici, quali necessitati ispiratori delle decisioni via via adottate, posto che i dati scientifici rilevano sotto il profilo della possibilità di valutare la proporzionalità e la ragionevolezza delle misure adottate rispetto agli scopi perseguiti.
Il che, e direi proprio in ragione della non univocità dei pareri, non può che essere accentrato ad evitarsi il caos; si pensi solo all’accavallarsi di contrarie prescrizioni da parte dello Stato e della regione Campania in tema di “passeggio” o di accesso alle tabaccherie, ovvero da parte dello Stato e della regione Lombardia in diversi dei 27 divieti disposti nella sola sede regionale con le refluenze concrete già avutesi: denunce ed impugnative. E, a tal riguardo, si mediti sulla discrezionalità affidata agli operatori di polizia nel dover ricondurre, a fronte di generiche prescrizioni (i “motivi di necessità” che possono giustificare l’abbandono delle abitazioni e/o dei Comuni), determinate condotte a fattispecie incriminatrici.
Infine, per concludere sul punto, va osservato che, se cosi non fosse, dovrebbe ammettersi che non solo le Regioni, ma anche i Sindaci, siano muniti dei medesimi poteri extra ordinem.
Non si sobbalzi troppo frettolosamente.
L’art. 118 Cost. attribuisce ai Comuni “le funzioni amministrative, salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario siano conferite a Province, Città Metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”.
La legislazione ordinaria (art. 50 d.l.vo n. 267 del 2000 e art. 117 d.l.vo n. 112 del 1998) affida ai sindaci la potestà di emanazione di ordinanze contingibili ed urgenti, a meno che le dimensioni dell’emergenza non richiedano l’intervento dei livelli superiori: Regioni se l’emergenza è confinata nell’ambito regionale o Stato ove interessi “più ambiti regionali”.
Lo stesso art. 32 della l. n. 833 del 1978 differenzia la potestà di emanare ordinanze contingibili ed urgenti a seconda dell’ambito statale, regionale o comunale dell’emergenza.
L’art. 2 del d.l. n. 6 del 2020, sopra riportato, non individua “le Autorità competenti” all’emanazione di ulteriori misure; il che, ove non si ritenesse che la dichiarazione di emergenza nazionale abbia accentrato il potere in capo allo Stato, avrebbe a dover giustificare misure specifiche extra ordinem varate dai singoli sindaci a tutela della specificità del territorio comunale.
Tanto osservato, per concludere non resta che la finale, ma pregnante, considerazione che, ove mai, in via di mera ipotesi, avessero a potersi ritenere sussistenti potestà diverse da quella statale, appare ben difficile potersi ritenere, come già innanzi ho avuto modo di osservare, che le stesse possano dilatarsi fino a sanzionare con “ulteriori” norme repressive (ad ammettersi che i richiami all’art. 650 c.p. contenuti nelle ordinanze regionali vogliano essere puri rinvii alla previsione codicistica), incidenti sempre ed ancora sulle libertà primarie del cittadino, i casi di inosservanza agli “ulteriori” divieti posti.
Bene, se la guerra in atto deve farci concludere che “a la guerre comme a la guerre” e che, quindi, non si può parlare, come da taluni costituzionalisti fatto, di “eclissi delle libertà costituzionali” e che può anche farsi luogo ad una “militarizzazione” del Paese, per difenderne la vita stessa per il periodo necessario per conseguire il risultato, occorre, io credo, far tesoro della saggezza degli antichi Padri e, riannodando le fila, ammettere che per vincere la guerra, il “dictator” ha da essere uno, ovvero che poteri diffusi -il cui esercizio peraltro disorienta e contribuisce ad alimentare quel panico, fino ad oggi non del tutto considerato nella sua deleteria pregnanza- non sono compatibili con la realtà data: in fatto ed in diritto.
Io credo, in definitiva, che uno stato di emergenza, di eccezione, di guerra, lungi dal liberarci dalla corazza del diritto, vieppiù ci astringa a restare ben avviluppati in essa, sì da poter fronteggiare al meglio le spinte centrifughe, gli istinti che inevitabilmente han vita in tali periodi, ovvero sì da (tentar di) dare ad esse(i)risposta, di dar risposta all’homo homini lupus o al bellum omnium contra omnes.
Il che a dire che non sono d’accordo con quanti ritengono che allorquando sia minacciata la vita, che sostanzia la premessa di ogni libertà, “l’età dei diritti” (N. Bobbio) e “il diritto di avere diritti” (S. Rodotà) debbano cessare di aver vita.
Se pur è vero che in condizioni emergenziali poco interessano la libertà di circolazione o la riserva di legge come condizione irrinunciabile per la limitazione delle libertà costituzionali, vero è anche che, in difetto dello ius, delle regole, sarà l’ora dei lupi, degli sciacalli.